Il “San Paolo” di Stevenson: Dottor Jekyll and Mr Hyde

Ieri sera, mentre speravo che una delle palle a rientrare del nostro buon Lorenzo assecondasse una qualche traiettoria degna di insaccarsi nel famigerato ‚Äòsette’, mi alzavo dal divano, mi avvicinavo al televisore e, sospettoso di non essermelo chiesto o ricordato fino al 23′ della ripresa, mi chiedevo quale stadio ospitasse, nell’occasione, la Nazionale di calcio.

Amnesia….rimozione…. rifiuto? Fatto sta che ogni sforzo, dopo qualche minuto, risultava vano. Fino a quando, tra lo sventolio di bandiere, ragazze festanti, bambini con le divise azzurre in braccio a giovani madri sorridenti, allegre comitive di ragazzi ad intonare cori, mi sembrava….sì….di riconoscere qualcosa!

Incredibile, continuavo a dirmi, incredibile: è il mio stadio! E’ il San Paolo! Sono abbonato! Ci vado tutte le domeniche‚Ķ

Poi ho fatto mente locale ed ho ricordato che mio figlio, abbonato anche lui dall’età di sei anni (ora ne ha sette ed è sempre più tifoso‚Ķ.) è diventato un po’ la mascotte degli steward del mio settore perch√©, mi dicono, non è che se ne vedano poi tanti di piccoli abbonati‚Ķ.

E già, è cos√¨ che vanno il mondo, il meridione ed il San Paolo a due velocità; il tessuto sociale dai due volti; l’anima disperata di una città che si riscopre coinvolta, festosa e partecipe nella sua più elevata espressione di accoglienza per la Nazionale, per poi incupirsi nella logica di ‚Äòaffogata sopravvivenza’ fatta di code, sovraffollamenti, divieti infranti, settori scavalcati e, perch√© no, bambini di 10-11 anni portati in braccio dai genitori nel patetico tentativo di farli passare per lattanti, pur di non pagare!

Ricordo ‚Äì parafrasando un buon vecchio gergo calcistico alla Gianni Brera ‚Äì di aver dovuto ‚Äòdribblare’ i commenti di amici e conoscenti, all’annuncio della mia decisione di abbonare (come da regola dello stadio) mio figlio: in mezzo a un coro di chi te lo fa fare alternati a ma se entrano tutti e poi ci sistemiamo‚Ķ, la mia ferma insistenza nel volermi conformare alla correttezza deve essere sembrata, quanto meno, fuori luogo‚Ķ.

Eh s√¨, ho preferito fare la figura dell’ingenuo, e regalare a mio figlio l’incanto di un sediolino tutto suo, per tutto l’anno‚Ķ.per tutte le partite‚Ķ.come un lungo racconto che non finisce al triplice fischio‚Ķ.checch√© ne dicano quelli ‚Äòpiù buoni’.

Non dovremmo scomodare il buon Robert Louis Stevenson ma, mettendo a confronto l’immagine quasi ‚Äòanglosassone’ che proveniva dagli schermi ieri sera e le scene di ‚Äòabusivismo strutturale’ cui è sottoposta la macchina organizzativa del calcio partenopeo non possiamo non pensare a Doctor Jekyll and Mister Hyde. Due anime, due interpretazioni della condivisione di un evento che dovrebbe (ed il condizionale è, purtroppo, d’obbligo) essere ‚Äòsempre’ una festa, e non soltanto quando l’anima lacerata di una città ferita da troppi colpi si ricorda che, in fondo, è capace di esprimere gioia, civiltà, esempio.

Dovremmo cavalcare il timido rinnovamento proveniente dagli ultimi entusiasmanti anni della società calcistica per rifornire, forse, di entusiasmo, anche l’interpretazione stessa dell’evento calcistico, spettacolare, sociale.

Per ritrovare anche nello stadio, quale luogo di aggregazione e condivisione, una possibilità di ricostruzione di un orizzonte cittadino che, anche grazie all’incantata dimensione del gioco calcio, può e deve ricostruirsi come tessuto sano, regolare, vero.

Con donne, bambini, sorrisi e compagnia. Come dovrebbe essere per tutti, in fondo, il gioco.

E per trovare una risposta da dare a mio figlio quando, come ieri sera, tornerà a chiedermi: Sicuro, papà, che sia il nostro stadio? Ci sono cos√¨ tanti bimbi‚Ķ..

 

Leonardo Acone